Le parole non dette: “Caro papà. Rimpiango di non averti mai abbracciato”.


Comunicare con i propri defunti si può: dal “telefono del vento” in Giappone, alla “lettera al papà deceduto” da 30 anni, pubblicata sul “Corriere della sera”.

di Orlando Abiuso.

In Giappone esiste  il “telefono del vento” con il quale si può entrare in contatto con i propri defunti, recandosi  su una collina che domina l’oceano Pacifico, fuori della città costiera di Otsuchi, dove c’è una cabina telefonica di vetro, in modo che si possa vedere il paesaggio, all’interno c’è un quaderno e un telefono,nero, non collegato a nulla, se non al vento che vi soffia violento. E’ chiamata il “telefono del vento” e ogni anno migliaia di persone che hanno perduto dei parenti, si recano nella cabina, alzano la cornetta per parlare con i propri defunti che sono nell’aldilà, magari per dire o confessare le parole “non dette” quando erano in vita[ vedi Blog “Il telefono del vento”, del 6 settembre 2020 ].

In Italia non è possibile telefonare ai defunti, ma scrivere loro una lettera utilizzando una pagina del “Corriere della sera”, rubrica  “Risponde Aldo Cazzullo”, che pubblica anche lettere indirizzate all’aldilà, come questa che si può leggere  sull’edizione  di venerdi  4 giugno 2021, pag 31 : “ Caro papà, rimpiango di  non averti mai abbracciato. Oggi faccio 68 anni e 16 giorni, esattamente il tempo di mio papà su questa terra. E’ mancato quasi 30 anni fa. Mio papà, non certo tra i migliori al mondo, ma neppure tra i peggiori. Difetti  e  pregi in quantità variabile. Difetti  che, nella mia età adolescenziale, mi parevano enormi, cosa poi rivelatasi non vera. Pregi che, nei due anni di malattia hanno evidenziato una bontà d’animo esagerata, cosa che nella vita è stata celata da una maschera burbera.  Un papà, artigiano falegname a tutto tondo, con gravi difetti nel farsi pagare il giusto. Un papà amico degli amici, del vino sul tavolo giocando a scopa. Un papà che lasciava le incombenze domestiche alla mamma e che, per la scuola,  si accontentava del responso di giugno. Un papà col quale non si affrontavano  grandi tematiche, ma neppure quelle medie. Ma anche un uomo al quale brillavano gli occhi quando, come figlio, portavi a casa buone nuove. Un papà che non si offriva mai, ma che faceva della disponibilità un arte. Occorreva chiederla. Un papà morto che mi pareva vecchio, a fine corsa. Un papà che, se fosse rimasto, avrebbe accelerato il mio processo di crescita. Ecco, potessi esprimere un desiderio, uno solo, chiederei  un’ora con lui. Per fargli vedere come ho  trasformato la casa di famiglia, anche se certamente arriveranno dei  rimbrotti, perché riveda i nipoti, allora piccoli, conosca i pronipoti, e qui gli occhi torneranno umidi e, soprattutto, per un abbraccio, abbraccio che non ricordo ci siamo mai scambiati e che è la cosa che più mi manca”. Giulio Parravicini, Varano Brianza.

La poetessa Maria Luisa Spaziani così ricorda sua padre:

Papà,radice e luce

Papà, radice e luce,

portami ancora per mano

nell’ottobre dorato

del primo giorno di scuola.

Le rondini partivano,

strillavano:

“fra cinquant’anni ci ricorderai”.