Diagramma di un incontro. Sul disegnare di John Berger. Recensione di Agnese Azzarelli


«Il qui incarna la necessità; l’altrove offre la libertà. La condizione umana inizia quando le due sono faccia a faccia. E solo il disegno è in grado di descrivere come questo avvenga nello spazio, e dunque come necessità e libertà si incastrino per dare ospitalità alla condizione umana.»
«Credo che stessimo cercando un linguaggio comune. Alla fine abbiamo trovato il dialogo del disegno.»

«Per tutta la vita odiò il ricatto e il pathos», così John Berger su Vincent Van Gogh.
Il pittore sa che gli iris moriranno. Questo è ciò che restituisce all’osservatore: una nudità considerata dai suoi contemporanei ingenua o folle, tratteggiata con pennello o penna di canna imbevuta di inchiostro.
La sedia è una sedia. Gli stivali si sono logorati a forza di camminare. I girasoli sono piante, non costellazioni. Il postino consegna le lettere.
Passa un secolo. John Berger e la scrittrice Latife Tekin si incontrano. Parlano lingue diverse. «Avevamo solo la nostra capacità d’osservazione, la nostra abitudine al racconto, la nostra esopica tristezza. La diffidenza ha lasciato il posto alla timidezza.» Lui fa un disegno in cui si raffigura come uno dei suoi lettori. Lei disegna una barca ribaltata per dirgli che non sa disegnare. Lui capovolge il foglio e la barca si raddrizza.
Dagli olivi di Van Gogh, ai disegni di Picasso, dalla delicatezza di Watteau alle ali diafane delle libellule di Jacob de Gheyn, sino alle articolazioni di Martin Noël; Berger dimostra come il disegno sia il luogo di un incontro, di un dialogo, sottile, acerbo, serafico o violento. Il segno indugia, insiste, si arresta, si trattiene. Il segno non aderisce mai ad un soggetto, piuttosto è la traccia dell’incontro tra una mano ed una curva, un’asperità. L’occhio e la mano sono colpiti da un visibile che è tangibile, palpabile, sin da subito dato all’amore o al disamore di chi opera.
David Sylvester interroga Alberto Giacometti sull’esilità delle sculture fatte senza modello, Giacometti: «Si restringono mio malgrado». Inutile dire. «Quando le parole si applicano alle arti visive, le une e le altre perdono precisione. Impasse.»
Eppure, mediante la narrazione ricca di esempi di Berger, veniamo a conoscenza di che cosa possa voler dire disegnare, ma non solo. L’artista dà voce, mediante la lucida descrizione della sua pratica, a passioni, modi del sentire pressoché indicibili, appartenenti alla logica del desiderio. In tale modo è descritto il principio della sparizione proprio del disegno, ovvero il «trasformare apparizioni e sparizioni in un gioco più serio della vita». Un gioco strano, «perché è impossibile vincerlo, o controllarlo interamente, o capirlo adeguatamente».
Berger inventa, piega e impiega il linguaggio, ricorre all’etimologia, per tentare di descrivere la pratica del disegno, gli si accosta con amore. Ricorre a immagini. Dialoga con Yves Berger e James Elkins. Un dialogo impegnato, nel tentativo di dire ciò che si ha a cuore. In definitiva, il tentativo dello scrittore, in questa raccolta, non è dissimile a quello dell’artista. Egli sceglie con accuratezza ogni parola, ogni immagine e riesce nell’intento di restituirci i nodi di una pratica che egli assimila ad un flusso, ad una mappa, altre volte al diagramma di un incontro.
 
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